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Il parcheggio del signor Ferrari

Grazie, Ferrari Adelmo. La Ferrari, dopo ventun anni, ha vinto e siamo contenti, anche se la Formula Uno e i suoi eroi ci annoiano mortalmente. Ci annoia Schumacher, l’uomo dalla mandibola carenata che guadagna dieci milioni al minuto, cioè un milione ad ogni inspirazione di benzina, è l’unico al mondo col rimborso spese per l’ inquinamento. Ci annoia Luca di Montezemolo, il fighetto col ciuffo che arraffa presidenze e soldi ovunque, il Berlusconcino del futuro. Ci annoiano le gomme con la mescola dura, con la mescola molle, coi foruncoli da pioggia e con l’eritema da sole. Ci annoia questa storia che “i piloti sono atleti”: cento giri del circuito di Indianapolis sono una passeggiata in confronto a una Bologna-Firenze in agosto. Ci annoia vederli piangere e gioire agli inni nazionali e poi prendere la residenza a Montecarlo. Ci piacciono soltanto i meccanici Ferrari, perché sembrano una cooperativa di diavoli, ci piace la Minardi perché non vince mai e soprattutto ci piace Alvaro Vitali, che dopo una breve carriera nel cinema, ha saputo cambiare vita e vincere un mondiale con lo pseudonimo di Jean Todt.
Ma soprattutto ci dispiace come la vittoria della Ferrari abbia fatto passare sotto silenzio un evento molto più importante: e cioè che dopo ventuno anni Adelmo Ferrari ha vinto la gara del parcheggio sotto casa. Poiché nessun giornale lo riporterà, saremo noi a raccontarne le gesta e a dire: grazie, Ferrari Adelmo.

La battaglia di via Monza. Da ventuno anni, via Monza, alla periferia della città, è considerato il circuito più pericoloso d’Europa. La si imbocca dopo il semaforo di via Lenin, l’ultimo semaforo comunista, tredici minuti di rosso e solo quattro secondi di verde. La via è formata da quattro curve a precipizio, tra cassoni della spazzatura, buche nell’asfalto, lavori in corso e sgorghi di fogna. Si entra nella via sgommando ai cinquanta, poi si ingrana la prima alla chicane della Velda. Nonna Velda ha ottant’anni e ogni sera si mette seduta fuori dalla porta, solo che non si è accorta che da vent’ anni hanno tolto il marciapiede e sta con la sedia esattamente sulla mezzeria.
Schivata nonna Velda e superata la chicane, si entra nella Curva del Pataccaro, davanti al manifesto gigante di Berlusconi, poi si toccano i sessanta all’ ora sul breve rettilineo di Nerone, così detto perché vi si possono ammirare lavori in corso risalenti a epoca romana, e in controsterzo si affronta la famosa curva delle acque, o della pozzanghera Tabarroni.
Qui da vent’anni, per un problema di tombini intasati, c’è una profonda pozzanghera attraversando la quale le auto schizzano fanghiglia nel giardino di Palmiro Tabarroni, che reagisce tirando sassi, secchi d’ acqua e talvolta palate di merda.
Superata questa pericolosa curva si apre a tutto gas sul rettilineo dei Calabroni Pazzi, e schivando i ragazzini che vanno su una ruota sola in motorino, si arriva al traguardo, cioè all’unico parcheggio disponibile della via, uno spiazzetto tra due platani butterati. Qui, per ventuno anni è sempre arrivata prima la Mercedes grigia del fornaio Mirko Micàcchini, boss della baguette rionale, detto il finlandese per la chioma bionda ossigenata.
Qui, ogni mattina dopo il lavoro notturno, per ventuno anni ha cercato invano di infilarsi la Fiat Cinquecento rossa di Adelmo Ferrari, infermiere, residente proprio davanti al parcheggio.
Domenica, in concomitanza col circuito di Suzuka, si è svolta l’ennesima sfida. Adelmo Ferrari, reduce dal turno di notte, è arrivato al semaforo di via Lenin alla pari con Micàcchini. I due hanno iniziato a sgasare rumorosamente. Pioveva leggermente, e questo dava un lieve vantaggio al Ferrari, più forte sul bagnato, perché gli piove sempre dentro attraverso la capotta. Al verde i due erano appaiati. Purtroppo la partenza è il lato debole del Ferrari, che ha il cosiddetto piede a banana, che non gli dà presa sull’acceleratore.
Ma questa volta Adelmo aveva modificato l’assetto della Cinquecento incollando un tagliere da cucina sul pedale, ed è scattato conquistando la pole position. Il bolide rosso è entrato nella Chicane della Velda con tre secondi di vantaggio. Ma qua lo attendeva il primo imprevisto. Nonna Velda stava nutrendo i suoi cinquantasei gatti, che stazionavano in mezzo alla strada.
Le alternative erano: uno, sospendere la gara e chiedere la safety-car, due, deviare attraverso il giardino della Velda, tre schiacciare tutti i gatti. Sportivamente Adelmo Ferrari sceglieva la seconda soluzione e, pur massacrando l’orto dei pomodori, rientrava sbandando in via Monza. L’antisportivo Micàcchini invece puntava dritto a tutto gas, dimezzando la dotazione di gatti, e si ritrovava in testa di sette secondi. Ma la sua slealtà veniva punita. Arrivava lungo alla pozzanghera Tabarroni, ci affondava dentro, e spegneva il motore. Purtroppo Ferrari non poteva approfittare della disgrazia, in quanto aveva danneggiato una ruota urtando un nano di gesso durante l’attraversamento del giardino.
La gara era ora in mano ai due team. Il team Micàcchini, formato dal pilota e dai due fratelli. E il team Ferrari, che oltre a Adelmo comprendeva la moglie Nilde e il figlio Pompeo, piccolo grande stratega. Il team Micàcchini era indeciso tra due tattiche: succhiare con una pompa tutta l’acqua o tirar fuori l’auto a braccia. Il Team Ferrari invece decideva subito. Nilde Ferrari, donna di grande potenza fisica, allenata da anni di sfoglia, avrebbe sollevato la Cinquecento, Adelmo avrebbe cambiato la gomma e Pompeo avrebbe fatto il Montezemolo, cioè non avrebbe fatto un cazzo.
Il pubblico da balconi e finestre stava col fiato sospeso, avendo compreso che in quegli istanti si decideva la gara. Il team Micàcchini cercava di portare la Mercedes in secca, ma era disturbata dal continuo lancio di secchi d’acqua arricchita alla merda da parte di Scandellari. Inoltre c’era il dubbio se vuotare la macchina o partire carichi di settanta litri di acqua e fango.
Nel team Ferrari c’era incertezza su quale gomma montare: quella da autobus rubata l’anno scorso o quella rappezzata di dieci anni prima. Pompeo optava per quella più vecchia e collaudata.
Tutto si decideva in pochi attimi: Micàcchini terminava il pit stop in centosedici bestemmie e ventitre secondi, e tornava in pista con la macchina che spandeva acqua come una cisterna. Ferrari cambiava la gomma in soli ventisei secondi ma, ahimè, ripartiva in seconda posizione. Le due auto si presentavano in questo ordine sul rettilineo finale, e tutto sembrava deciso. Ma ecco il colpo di scena.
La Mercedes di Micàcchini, piena d’acqua, perde velocità e dalla marmitta, intasata di pelo di gatto, esce fumo nero. La Ferrari recupera, è a un secondo e tre decimi, quando la gomma d’ antiquariato esplode. A questo punto, il capolavoro di Adelmo. Sentendo il rumore del copertone che perde aria, egli sfonda coi piedi il pavimento della Cinquecento, e unendo la spinta delle gambe al getto d’aria della gomma, decolla e sorpassa in aria la Mercedes, atterrando esattamente nel parcheggio.
E’ la fine di un incubo durato ventun anni. Via Monza si ammanta di bandiere rosse, molti piangono. Micàcchini la prende sportivamente, prendendo Pompeo a calci in culo. Si stappa una bottiglia di moscato al metanolo, il getto verdastro sale fino a sessanta metri e irrora i tifosi festanti.
E’ una grande vittoria per il binomio Fiat-Ferrari, per tutta l’ industria italiana e per il prestigio del nostro paese all’estero. Mentre Tabarroni si accinge a suonare l’inno di Mameli con la fisarmonica, la sorpresa. Arriva un carro attrezzi e si diffonde la ferale notizia. Poiché è venuto a abitare nel condominio un importante assessore, il parcheggio è ora riservato alle auto blu comunali.
“Dobbiamo rimuovere questa macchina”, dice il vigile, con inconfondibile accento finlandese. Si incazzano anche i gatti. In Via Monza scoppia la rivolta. Gli scontri sono ancora in corso. Comunque vada a finire, grazie, Ferrari.

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