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La scomparsa dell’acqua

In un albergo di una ridente città isolana è stato notato
il seguente cartello: «La prima colazione è dalle sette alle
nove, la doccia dalle otto alle dieci». Per tutto il resto della
giornata non c’era un filo d’acqua. Il Grande Impero dei Megastadi e degli
Acquafan non riesce a dissetare un quarto del suo territorio. Continueremo
a vedere le processioni alle fontane, i camioncini della camorra che
vendono acqua a peso d’oro, i Comuni che si rubano i pezzi di acquedotto e
i campi irrigati con le sovvenzioni.
Basta guardare i nomi di chi dovrebbe salvarci: i ministri Mannino,
Lattanzio e Pomicino, tre gerarcosauri vecchi quasi come la nostra rete
idrica. I tre, riunitisi, hanno dichiarato che la colpa è della
«particolare siccità italiana» (che come sapete, a
differenza delle piovosissime siccità inglesi e francesi, è
accompagnata da un’imprevedibile mancanza d’acqua). Ma la ragione
principale di questa crepa nel Benessere italico è la Scomparsa
dell’Acqua.
Eppure, se guardiamo la Pubblicità, notiamo che l’acqua la
sommerge. È il trionfo dello scroscio, del rivolo e della gocciolina.
Docce e cascate inzuppano modelle e modelli, tra corpi imperlati e tuffi
in piscina. Tutto è fresco e gocciolante, frutta, culi e
mozzarelle. E su tutto, precipita una valanga di ghiaccio al ralenti. Ma
non si tratta, in questo caso, di banale acqua da bere, o da lavello.
È acqua intesa come patina estetica, abbellimento, palingenesi,
perlage e status symbol.
La Scomparsa dell’Acqua è ancor più evidente negli spot
delle acque minerali, che non servono più a dissetare, ma a
saltare con l’asta, a tenersi in forma, a «riempire i momenti
speciali» e a fidanzarsi al richiamo d’amore “recoaro
recoaro”. Basta berne un sorso e appaiono palestre, barche da sedici
metri e lussuose ville con piscina. L’organo preposto a queste acque non
è il rene, ma la Guardia di Finanza.
In quanto alle bibite, ce n’è una con cui “bevi
l’intelligenza”, un’altra che ti fa “ripartire di slancio”,
per non parlare di quelle che ti proiettano in mondi di palme sintetiche
e mulatte basculanti. Perciò guai a chi si presenta al bar
chiedendo «qualcosa da bere». Gli verrà risposto:
«Ci dispiace, signore, abbiamo qualcosa per ripartire di slancio,
qualcosa di intelligente, qualcosa per liberare il tropicale che
c’è in te, ma niente da bere».
Se poi chiedete un bicchier d’acqua vi verrà risposto con freddezza
che ci sono solo reintegratori di sali minerali e idrossigenanti
metabolici. Bere acqua è passato di moda, l’ultimo che la beveva
era Lucio Battisti ed è giusto che lucani e liguri perdano questa
vetusta abitudine.
In quanto all’igiene delle nostre acque, ci conforta il fatto che ormai
il numero dei rilevatori di inquinamento è quasi pari a quello
delle industrie inquinanti. Siamo in grado di individuare la minima
traccia di atrazina nelle insalate lombarde, i vibrioni nei brodetti
napoletani, il microbo del legionario nelle condutture emiliane e i
pesticidi nei rubinetti toscani. Fotografiamo l’agonia nel nostro mare
che affoga nel vomito delle diatomee, nei colibacilli e negli scarichi
degli yachts delle casalinghe. Analizziamo campioni, perquisiamo cozze,
cataloghiamo avvelenamenti con la stessa precisione
masochistico-statistica con cui registriamo l’ennesimo trionfo piduista
nei processi, i morti di mafia, le assoluzioni di Andreotti e le versioni
su Ustica.
E ogni volta chiediamo un «sorso di acqua fresca di
verità», e ci teniamo la sete. Siamo un paese che
segnala la merda con grande rapidità, ma poi se la tiene.

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