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Il bambino col pallone (II parte)

C’era nel nostro rione un celebre bambino piedestorto, tale Sacchi, di ottima
famiglia, gentile ed educato, Il padre aveva tentato di tutto per guarirlo: lo
aveva mandato a lezione privata dall’allenatore del Bologna, lo aveva fatto
visitare da famosi ortopedici, ma non c’era stato niente da fare. Aveva anche
promesso a noi che avrebbe ripagato ogni pallone forato o perso dal figlio, ma
desistette dopo che un giorno gli presentammo il seguente conto.
Distrutto da Sacchi piedestorto questa settimana il seguente quantitativo di palloni:
N.24 di plastica «Real Madrid» da lire 1000

    • 11 contro cespugli di rose

 

    • 4 su tetti

 

    • 6 nel giardino della signora Somaruga

 

    • 3 su cassoni di camion che passavano

 

N.4 di cuoio «Juventus» da lire 6000

    • 1 in giardino signora Somaruga

 

    • 1 dentro carro funebre al volo

 

    • 1 esploso al solo contatto del piede di Sacchi

 

    • 1 conficcato in cima ad antenna di televisione casa signori Fattori
      altezza metri 106 allegata fotografia per crederci.

 

Totale lire 47.000 più lire 13.000 di vetri, vasi e fanalini rotti nei vari rimbalzi.
Pregasi di saldare al più presto e di avviare Sacchi al nuoto.
Grazie: il collettivo bambini col pallone di via Audinot.

Il giardino della signora Somaruga

Tutti i bambini calciatori, una volta, nella notte, hanno avuto l’incubo di
cadere nel giardino della signora Somaruga. Da esso nessun pallone è mai
uscito vivo. La signora Somaruga ha costruito, negli anni, una macchina
mangiapalloni perfetta. Vedasi la recinzione, calcolata abbastanza bassa da far
passare un rimbalzo medio, e irta di terribili spunzoni. Nel giardino,
esclusivamente piante grasse: giganteschi cactus spinosi che la signora Somaruga
disponeva abilmente a scacchiera, in modo che il pallone avesse ben poche vie di
scampo. E poi le aiuole, circondate da pietruzze perfettamente appuntite. E
le rose della signora Somaruga: cespugli che erano perfette macchine da guerra:
duemila spine per fiore. Un pallone, ripetiamo, aveva ben poche
possibilità di uscire vivo di lì. Malgrado tutte le attenzioni dei
bambini calciatori, veniva sempre, nella partita, il momento del rimbalzo
anomalo, dello spigolo ribelle; e allora, mentre il pallone, come stregato, si
avviava verso il recinto spinoso, un nooooooo angoscioso prorompeva dai nostri
petti, «no, dalla Somaruga no!». A volte il pallone urtava la rete e
tornava in strada. Allora lo abbracciavamo, lo baciavamo, qualcuno gli chiedeva
anche se voleva un cognac. Lo scampato pericolo ci rendeva felici per un po’ di
tempo. Ahimè, per poco tempo. Il giardino stregato attendeva paziente la
sua vittima. Un colpo di testa appena un po’ alto, il portiere che respinge
storto di pugno, un rimbalzo, un urlo, e il pallone piombava nel giardino
maledetto. Ci arrampicavamo sul muro, di corsa. E lo vedevamo agonizzante,
sgonfiarsi su un cactus o su un sasso-killer. I nostri occhi si riempivano di
lacrime. La signora Somaruga usciva subito in vestaglia con un ghigno crudele,
prendeva il mezzo palloncino sgonfio e ce lo rimandava sempre con le stesse
orrende parole di scherzo «to’, facci un cappellino», prorompendo in
una risata diabolica. Poi faceva una carezza al cactus dicendogli «bravo,
Antonio» e scompariva nella sua casa urlando «andate a giocare in
un’altra strada». Cosa, come sapete, impossibile: in ogni strada della
città c’era infatti un giardino della signora Somaruga. Dai più
semplici, con un solo cespuglio di rose, a quelli complessi, come appunto quello
testé descritto per mantenere il quale la Somaruga importava ogni mese
piante tropicali e rose speciali tedesche. Si dice avesse anche, in salotto, una
plancia di comando con la posizione di tutte le armi offensive, e che appena il
pallone varcava il recinto, suonasse un segnale d’allarme, così la strega
poteva correre alla finestra e vedere il delitto. Un mio amico, tale Berardini,
giura che nel giardino della signora Somaruga di via Ranzani c’erano due cactus
semoventi che la signora spostava con carrelli telecomandati per poter forare il
pallone al volo. Nessuno, nessuno poteva sfuggire alla maledizione.
Finché una volta…

La storia della signora Somaruga e il recuperatore di palloni

Dovete sapere che, al centoseiesimo pallone divorato in un solo mese dal
giardino della signora Somaruga, si tenne nel nostro rione un’assemblea di
bande. C’erano i «ciccato e palmo», i terribili scaccolatori di San
Donato, i bragheblù delle zone ricche, i cacciatori di rane, i
catechisti, i feroci calabroni di via Pratello dalle lunghe cerbottane, gli FFF
(fenomenali fattorini di fornaio) con le loro biciclette ammaestrate, i ladri
di gelati e i Sioux incendia formiche.
Il più autorevole di noi, il capo dei rubagelati, Rodrigo detto Rodrigo
il frigo per la sua capacità di mangiare fino a venti ghiaccioli di fila,
disse che non si poteva continuare così, che via Audinot era una delle
strade da calcio più belle della città, con meravigliosi platani
per pali, poche macchine che passavano, fondo di buon asfalto liscio, e non si
poteva più rinunciare a quel campo solo per colpa di quel malefico
giardino. Bisognava fare qualcosa. Si fecero le prime proposte. Uno scaccolatore
propose di bruciare viva la signora Somaruga. Un bragheblù di legare il
pallone con un elastico. Un Sioux di giocare con un pallone di ferro. Un altro
di entrare di notte e togliere tutti i peli ai cactus e tutte le spine alle
rose. Ma nessuna di queste proposte ottenne l’approvazione generale.
Finché si alzò a parlare Ernesto il saggio. Ernesto era il
più vecchio di tutti noi, aveva undici anni e una folta barba bianca gli
incorniciava il volto austero. Godeva tra di noi di molto rispetto perché
aveva viaggiato ovunque, ed era stato quasi un anno presso un guru ad Ancona.
Ernesto disse che durante uno dei suoi viaggi, in un paese che si chiamava
Falconara Marittima, aveva visto alcuni bambini del posto giocare ridendo vicino
a un giardino della signora Bertelli che sarebbe l’equivalente marchigiano della
signora Somaruga. Alla domanda come mai giocassero con tanta serenità
vicino a un così terribile tipo di giardino, risposero: nessuna paura:
se succede qualcosa chiamiamo il recuperatore di palloni. E mi spiegarono che
nel loro paese c’era un bambino il cui lavoro era appunto recuperare i palloni
caduti nei giardini delle signore Somarughe. Il suo nome era Radames. Si chiami
Radames, si chiami Radames, gridammo a una voce!
E Radames fu chiamato.

Radames

Radames arrivò una mattina, con una grossa valigia. Era un bambino
biondo e grosso con gli occhiali, dall’aspetto alquanto tedesco. Mise subito in
chiaro la sua tariffa: quattrocento bustine di figurine, duecento subito e
duecento a lavoro finito, e si mise al lavoro: scattò varie foto del
giardino della signora Somaruga, disegnò strane figure geometriche su un
foglio e fece calcoli complicati. Fatto ciò, disse soddisfatto:
«Sì, credo che si possa fare un buon lavoro» e sparì.
Quella notte entrò in azione.
Per prima cosa con un tronchese speciale tagliò tutte le punte del filo
spinato. Poi balzò dentro al giardino e con un rasoio elettrico a pila
tosò tutti i cactus fino all’ultimo pelo, trasformandoli in innocui e
ridicoli salamoni, indi si applicò al cespuglio di rose: vi lanciò
sopra una busta con la scritta «acarus brasiliensis». Ne uscirono
venti insettoni color caffè. In due sole ore, a ritmo di samba e
mandibole, del cespuglio delle terribili rose non era rimasto che qualche
stecchino nerastro. Quindi Radames applicò uno strato di resina molle su
ogni sasso appuntito, limò alcuni sassi più resistenti,
ripulì tutto dai vetri e dai cocci, e, come ultimo tocco castrò
tutte le api dei pungiglioni. Un artista.
La mattina dopo più di duecento bambini calciatori erano presenti in via
Audinot per poter assistere a ciò che mai occhio umano aveva visto prima
d’allora: e cioè un pallone tornare vivo dal giardino della signora
Somaruga. Per mezz’ora giocammo nella strada, ma il nostro pensiero non era
certo rivolto alla partita, ma al momento fatidico. E il momento venne: fui io,
con una rovesciata non so quanto involontaria, a fare varcare al pallone la
recinzione del giardino: il pallone rimbalzò sul filo reso innocuo, poi
cadde su un cactus, su un altro, su una pietra rotonda, e si fermò al
suolo. Vivo e rotondo. Per un attimo solo. Poi, improvvisamente, si
afflosciò.
Un ululato di delusione riempì la via. E qua vedemmo per la prima volta
Radames in azione. Con un balzo felino superò il recinto, piombò
nel giardino, afferrò il pallone, e dondolandosi su un albero
saltò nuovamente in strada. Quattro secondi per entrare e uscire dal
giardino della signora Somaruga. Ma se eravamo ammirati dalla prestazione
atletica di Radames, eravamo delusi e incazzati per il suo fallimento.
«Ridacci indietro le figurine, impostore», urlò Venanzio,
capo degli scaccolatori minacciandolo con una caccola delle dimensioni di un
polpettone. «Un momento», disse Radames, «lasciatemi fare
l’autopsia». Prese il pallone e lo mise a mollo in un secchio d’acqua. Lo
guardò a lungo e poi disse: «Proprio come sospettavo».
«Cosa?» chiedemmo. «Come vedete», disse Radames,
«strizzando il pallone non si vedono bollicine nell’acqua: il pallone
quindi non è bucato». «E allora?» grugnì
Venanzio. «E allora è semplice! Il pallone è deceduto per un
collasso dovuto alla paura: cioè tale è stato lo spavento nel
rendersi conto di trovarsi nel giardino Somaruga che la valvola non ha retto.
Bisogna prendere un altro pallone, e spiegargli che non deve più temere
nessun pericolo». Tutti restarono un momento interdetti: poi Venanzio
rimise la caccola nella fondina e disse: «Ok, ti diamo un ‘altra
possibilità straniero: ma una sola». Radames non sembrò
spaventato. Prese un pallone bianco, gli parlò dolcemente e lo convinse a
giocare con noi senza paura.
Al terzo calcio fu un bambino «ciccato e palmo» che sbagliò
un tiro al volo. La sua scarpa destra volò in un altro rione, e il
pallone prese un albero e finì nel giardino. Vi rimbalzò ben
dodici volte e si fermò. Intatto. Un urlo di gioia proruppe dalle nostre
bocche. Radames prese la rincorsa per saltare la rete e balzò. Ma mentre
stava per avvicinarsi al pallone, un essere mostruoso sbucò fuori da casa
Somaruga. Era un cane piccolo e grasso di colore bianco, quasi senza zampe e con
mostruosi occhi da rospo. Aprì la bocca: essa conteneva un unico canino
appuntito, mostruoso. Un attimo e bam, aveva morso e fatto scoppiare il pallone,
e puntava minaccioso verso le gambe di Radames, che riuscì a mettersi in
salvo solo con un balzo da canguro. «Adesso basta straniero!» disse
Venanzio lo scaccolatore, «tu ci stai prendendo per il culo. E’
già il secondo pallone che perdi. Fuori le figurine».
«Lasciatelo stare», disse Ernesto; «non lo avevamo avvisato
che nel giardino c’era anche Yamamoto [tale era il nome del cane]».
«Eh già», disse Radames, un po’ agitato, «altrimenti
avrei calcolato diversamente!». Volarono calci e spintoni. C’era chi
voleva dare a Radames una terza possibilità. Chi invece proponeva di
farsi ridare le figurine e di pestarlo per bene. Vinsero le colombe. «Ma
ricordati», disse Ernesto, «se fallisci questa volta non
rivedrai mai più la tua Falconara». Radames disse «non
fallirò» e aveva un’espressione fiera negli occhi. Ci
consegnò un pallone arancione, di grande bellezza artistica, su cui era
dipinto Boniperti al tramonto. Fu Ernesto stesso, con un calcio deciso, che lo
spedì nel giardino Somaruga. Il pallone ne fece di tutti i colori.
Ballonzolò undici volte sui cactus, atterrò su un’aiuola di
petunie e le mostò con una furibonda serie di rimbalzi, ribaltò un
vaso di oleandri alto due metri, sfondò un vetro della casa,
entrò in salotto, schiacciò su un mobile gli occhiali della
signora Somaruga, entrò in cucina, piombò nel tegame del sugo
schizzando tutto intorno, aprì il frigo e si rivoltolò in un
delizioso vitello tonnato, entrò nella camera da letto della Somaruga,
distrusse il ritratto del marito, defunto notaio Somaruga, rimbalzò tre
volte sui cuscini lasciando una traccia maleodorante, e arrivò fino al
bagno ove la Somaruga era intenta a una operazione delicatissima e per lei molto
dolorosa in quanto soffriva di scarsa generosità intestinale; il pallone
le ballonzolò intorno mentre lei urlava atterrita, e poi paf, la
colpì in faccia, rimbalzò indietro per tutto il corridoio,
inseguito da Yamamoto, si buttò dalla finestra e all’ultimo momento
scartò a sinistra così che Yamamoto lo mancò e si
schiantò al suolo di muso perdendo nell’impatto l’unico dente. Indi il
pallone si fermò in bella vista, in mezzo a un giglio, come una meravigliosa
apona. Radames balzò nel giardino, e prese il pallone. Nel sole di
aprile, col pallone alto tra le mani, come un giovane Atlante che sollevasse
il mondo, così lo ricordo, avvolto dal nostro gioioso entusiasmo,
dal nostro infantile grido di gioia che come un arcobaleno solcò l’umida
verde erba del giardino. Ma dalla porta usci la signora Somaruga, in vestaglia
marron diarrea, scarmigliata, gli occhi iniettati di sangue, con due pantofole
con un lungo chiodo in punta, tra le mani due lunghi spilloni da calza. Urlammo:
«Attento Radames!». Ma già la Somaruga era sopra il
recuperatore, che si chiuse a riccio sul pallone. La Somaruga lo colpiva a
spillonate e chiodate, il sangue si alzava a zampilli, ma Radames metro su
metro, strisciando, mentre i colpi della strega lo riempivano di orrende ferite,
si avvicinava alla rete, tenendo il pallone protetto sotto la pancia. Ma ormai
le forze gli venivano meno: e capimmo che mai avrebbe potuto scavalcare la rete.
E la Somaruga colpi ancora tre volte e alzò il terribile spillone sul
pallone, che Radames teneva tra le mani insanguinate. E già
un’espressione di gioia sadica le riempiva il volto quando il recuperatore,
con un ultimo terribile sforzo, lanciò il pallone fuori nella strada
gridando «io muoio, ma tu sei salvo». Il pallone, mi ricordo, cadde
proprio tra le mie braccia insanguinato. E allora accadde la cosa incredibile.
Un boato tremendo scosse il giardino Somaruga. Un fulmine squarciò il
grande albero di albicocche, e ne fuggirono diavoli verdi, camaleonti verdi e
mottarelli alla menta. I cactus iniziarono a esplodere come candelotti di
dinamite, spargendo intorno spore mefitiche, i vasi crollarono in pezzi e ne
uscirono vermi neri, scarafaggi e compiti a casa; il filo spinato diventò
una rete di serpenti che sibilando sparirono sotto terra. La casa crollò
in un rogo orribile di fiamme e fumo. E la terribile signora Somaruga
svanì, dico letteralmente svanì in una fiammata azzurra e
fetente: di lei rimase solo un mucchio di cenere, le pantofole e i bigodini. E
intanto Yamamoto s’era tramutato in un drago peloso e gigantesco e iniziò
a gonfiarsi, a gonfiarsi fino a diventare alto come una casa, due case, tre e
improvvisamente bum, esplose, e il fumo nero salì così alto nel
cielo che oscurò tutto il rione e gli uccelli caddero arrostiti e i vetri
tremarono e il parroco cascò dalla bicicletta e tirò un Dio Padre
che ancora oggi si ricorda. Noi, storditi, cademmo a terra tra cenere e lapilli.
E quando aprimmo gli occhi, prodigio! La maledizione del giardino maledetto
era finita nel preciso momento che il pallone era tornato salvo nella strada.
Davanti ai nostri occhi si stendeva ora un bel giardino verde, pettinato
all’inglese, liscio e rugiadoso, con margheritine bianche e quattro deliziosi
abetini pronti a fare i pali. Uccellini e talpe cantavano. Dalla casa tutta
dipinta di bianco uscì la signora Somaruga, vestita di chiffon azzurro,
con una nuova pettinatura e due tette niente male. Alzò da terra Radames
e gli disse «poverino, ti sei fatto male?, spero di no? ma su, vieni
dentro che ti disinfetto». E poi, rivolta a noi: «Ma su, non state
lì in strada a sporcarvi. Venite a giocare nel mio giardino. C’è
l’erba, è tutto liscio, adattissimo per giocare a pallone. Entrate,
entrate. Là dietro c’è un buffet con un po’ di dolci e aranciata.
Fate come se foste a casa vostra». Entrammo, dapprima timidamente, poi
sempre più decisi. Giocavamo a lungo, estasiati tra il profumo dell’erba
fresca, tra il cinguettio degli uccelli e l’abbaiare di Yamamoto, che
tramutatosi in un grazioso barboncino nero aveva accettato di arbitrare. Ogni
tanto la signora Somaruga usciva, vestita spesso con pantaloncini corti e
la maglia del Milan, e vezzosamente chiedeva, posso giocare con voi, e sempre
dopo un po’ prendeva qualcuno di noi e lo portava in casa, diceva, per
lavargli le gambette che erano un po’ sporche. Tutte le volte il bimbo usciva
con una espressione strana sul volto, tra il sognante e il fiero, la stessa di
Radames la prima volta che era uscito da quella casa. Così conoscemmo
la felicità e l’amore nel giardino che una volta era maledetto. Ogni
tanto venivano le cugine della signora Somaruga, due gaie cinquantenni, e
allora il gioco diventava anche più interessante. Un brutto giorno di
settembre la polizia chiuse il giardino di via Audinot e portò via la
signora Somaruga. L’avevano denunciata. Mia madre mi disse, è
perché non aveva il tesserino da allenatore di calcio, non era mai stata
a Coverciano. Non so se fosse vero. Ma tutto il resto che vi ho raccontato
è assolutamente vero.

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