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O guerra o idiozia

Un lettore di Napoli ancor prima della tragica conclusione dei «55 giorni», scriveva come in questo tempo la Tv gli sia sembrata quasi «schizofrenica», divisa in due. Una parte «di guerra», in cui si accavallavano comunicati, retate, indagini e grandi dichiarazioni, e in cui le tensioni sociali e la vita politica erano ridotte a un fronteggiarsi di apparati militari, ugualmente indifferenti e sprezzanti della volontà dei «civili».

Dall’altra parte, dice la lettera, «proseguiva una programmazione, salvo qualche eccezione, non solo al di fuori di ogni dramma, ma di qualsiasi aspetto dell’attualità, con spettacoli degni di figurare pari pari in una giornata televisiva degli anni 50. O la guerra, o l’idiozia totale. Quando vedremo in Tv qualcosa che ci ricordi ciò che vediamo coi nostri occhi, tutti i giorni, a Napoli e nel sud?».

Crediamo non siano impressioni solo di questo lettore. Riguardo a questi giorni, diciamo subito che era facile fare informazione portandosi dietro il passato, e cioè il ruolo sempre imposto alla Tv, non di servizio pubblico, ma di megafono partitico. Logico che il dibattito fosse quello al vertice, la solita sfilata dei capigruppo, il rituale delle dichiarazioni, i collegamenti con la questura anche se non succedeva niente, le indagini dove il materiale trovato era sempre «interessante» e gli indizi «seri». Poi la porta si chiudeva e il paese restava di nuovo fuori ad aspettare notizie. La Tv ha ascoltato i leader e non è entrata nelle sezioni dei partiti.

Gli operai, come al solito, sono stati usati per le due o tre frasi prese al volo all’uscita dalle fabbriche, e mai si è cercato di essere presenti, per esempio, a una loro assemblea. A sinistra è apparsa solo la posizione dei partiti storici: del dibattito, spesso lacerante, delle altre realtà, solo poche note frettolose. Il linguaggio, poi, è sempre stato quello «politico», e quindi tutto poteva figurare senza discuterlo. Ci si poteva presentare come «umanitari» o si poteva firmare «per il comunismo» e tutto andava in onda.

Cosa aspettarsi, allora, dal futuro? Tra un’Italia tv per militari e una per cretini, c’è posto anche per i problemi e le speranze dell’Italia che vuole partecipare e cambiare? Se c’è, le cose da fare sono molte. Anzitutto eliminare l’assoluta divisione tra «informazione» e «critica» da una parte, «spettacolo» ed «evasione» dall’altra. Usare il linguaggio dello spettacolo per introdurre critiche e riflessioni. Non esaltare il mito dell’«indice di gradimento»: finché non si provano cose nuove, non si può dire che «piacciono» solo le cose vecchie. Non confinare la cosiddetta «cultura» solo negli angoli degli specialisti e delle rubriche. Chiamare a gestire trasmissioni le realtà sociali di base, certo meglio degli striminziti «programmi dell’accesso». Non lasciare solo ai telegiornali la gestione dell’attualità. Usare il documentario e la diretta soprattutto per capire cosa succede alla gente tutti i giorni.

Un esempio: il servizio Una giornata a Milano, in Sabato due. Nessun commento pretenzioso, nessuna musica suggestionante. La telecamera segue la giornata di lavoro di una commessa, una banca dopo una rapina, una retata, un’assemblea in una scuola, una lezione in un conservatorio, la solitudine di una balera di periferia. La realtà, insomma, il cui equivalente televisivo sarà poi cronaca nera, oppure il pezzettino giovanilista con la ragazza che passeggia al ritmo di una bella canzone americana, il telefilm poliziesco, i giovani della pubblicità che vengono colti da sfrenata ilarità ogni volta che bevono una bibita o salgono su un motorino, le sfilate di santi-cantanti, le allucinanti discoteche in studio coi ballerini-automi.

È la società di Una giornata a Milano con cui dobbiamo fare i conti, portarla sullo schermo per discutere perché è ingiusta, perché fa nascere disperazione. Invece si parla in questi giorni di ripescare dal ghiacciaio degli anni 50 il dinosauro di Lascia o raddoppia? Vi dice niente, questo?

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