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Morire di pugni

Quando uscirà questo articolo non so quanto sarà rimasto, sulla stampa e nel cuore della gente, dell’indignazione che ha seguito la morte di Jacopucci. Non so quante delle proposte per rendere sicuro il pugilato verranno accettate. So invece che, anche nello sport, solo la morte sembra intaccare, a tratti, la logica del profitto e dello spettacolo.

Ci volle la morte di Simpson per frenare l’uso di stimolanti nel ciclismo. Ci vogliono incidenti mortali per abolire una corsa automobilistica, o modificare il percorso. Ci sono voluti cinque morti in pochi mesi, e l’allucinante sequenza televisiva dei pugni di Minter, per muovere qualcosa nei mondo del pugilato. Un mondo dove molti manager e organizzatori non esitano a far incontrare pugili di valore diverso, anzi a volte lo fanno apposta per garantire lo spettacolo del k.o. (non è forse vero che esiste la figura del negro che viene chiamato per prendere un sacco di botte e rispedito a casa con poche lire?). Il mondo dei vertici federali, insensibile nei suoi giochi di potere (Evangelisti neanche si è visto, a Bologna, mentre Jacopucci moriva). Il mondo dei grandi enti americani che niente hanno di sportivo e tutto di grande industria, di giri di milioni di dollari, di verdetti truccati.

Non si può quindi imputare solo a un manager, o a un arbitro, o a un medico, una colpa che nasce da una logica del profitto pianificata, disumana, efficiente, che guida tutta una società, e che ha condotto Jacopucci su quel ring.

Perché il replay televisivo dei colpi mortali ci è sembrato allucinante? Perché esso era, nell’intenzione originaria, una forma di spettacolo. In ogni incontro, dopo ogni ripresa, viene sempre mostrato il pugno più forte, quello che ha fatto più male. Solo in seguito questa sequenza si è rivelata quello che era realmente: un uomo che ammazzava coi pugni un altro uomo, davanti a migliaia di persone che avevano pagato per vedere, e milioni di telespettatori. Questo ha mostrato, di colpo, cosa si nascondeva dietro i riti dello spettacolo. Dietro le finte risse al peso, dietro le dichiarazioni truculente alla stampa, dietro il finto sguardo d’odio che i pugili si scambiano all’inizio. Quante volte abbiamo assistito alle recite di Clay, alla sua finta cattiveria, alle telecronache piene d’urla. Non è forse vero che, per definire un k.o. violento, si usa la parola spettacolare? E lo spettacolo va avanti.

Sul ring di Bellaria, quella sera, sei pugili sono finiti k.o. Prima dell’ incontro di Jacopucci, è salito sul ring a salutare Duran, che causò la morte di Elze, un povero tedesco imbottito di droga. Eipel, dopo essere stato in coma un mese, vuole tornare a combattere. Minter ora si dice sconvolto, e gli crediamo. Ma crediamo anche che tornerà sul ring. Mentre la Tv trasmetteva un servizio su Jacopucci, bastava passare su Capodistria per assistere a un incontro selvaggio tra due africani. È una logica che non può improvvisamente sorprenderci. È quella che porta due pugili, due proletari, a combattere tra loro, a farsi sfruttare, ad accettare la morte e le menomazioni come rischio necessario del mestiere. Non ci sembra diversa da quella che ha tenuto aperte per anni le fabbriche della morte.

Forse non è un caso che sul Tg2, la notizia dell’inchiesta su Jacopucci fosse subito seguita da un servizio sulla Sloi, la fabbrica del massacratore su scala industriale Randaccio. Come non è un caso che non sia ancora nato, e sarebbe l’unica reale garanzia, un sindacato dei pugili. Ma non basta denunciare il disprezzo della vita di questa logica del profitto, senza accorgerci di qualcosa che ci è molto più vicino: la nostra indifferenza. Magari siamo pronti, col telecronista, a gioire quando un pugile finisce al tappeto. Oppure, come fa qualche compagno, ci consoliamo dicendo: «Sì, ma il pugilato a Cuba è tutto diverso». Lo sappiamo bene: finché la gente continuerà ad andare a urlare a bordo ring, finché le trasmissioni tv di boxe saranno gradite, il pugilato continuerà. Con qualche ripresa in meno, qualche controllo in più, ma con altre vittime.

Tutti hanno capito quanto sia esemplare la storia di questo ragazzo di borgata, un po’ spaccone, vitale, che fino all’ultimo ha detto: «Voglio vivere normalmente, non finire suonato di pugni». Ma molti torneranno tranquillamente a gustare nuovi k.o., anche se c’è chi, spero, non potrà dimenticare quel sorriso stanchissimo del pugile, mentre chiedeva scusa al pubblico, perché non aveva potuto fare niente di più che farsi ammazzare di pugni davanti a loro.

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