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Che bello arriva la catastrofe

A RIMPIANTI non ci batte nessuno. Ci accorgiamo di avere un
patrimonio artistico quando crolla, un territorio quando frana,
un’atmosfera quando stiamo soffocando. Contiamo i morti e gli ingorghi
e fomentiamo un traffico autostradale che sembra l’ora d’aria
dell’inferno. I nostri allarmi suonano a sirene spiegate, nel senso
che dopo bisogna spiegare perché non hanno suonato. Abbiamo la
più forte indignazione con replay dell’Occidente, anche se non
riusciamo a sostenere due indignazioni alla volta, entra la valanga di
fango ed esce il terremoto, entra la Liberia ed esce l’ Algeria. Ma un
pensiero ci turba: la fine del mondo sarà l’unico avvenimento
che non potremo rivedere alla moviola. Forse per questo hanno sempre
più successo i film-catastrofe, quelli in cui il tema centrale
è la rottamazione di paesi, città, e ultimamente, di
tutto il globo terracqueo.

LA TECNOLOGIA cinematografica ha raggiunto tali livelli di
perfezione sadica, che ormai in questi film gli effetti speciali sono
i dialoghi. L’Italia, per non essere da meno degli americani, si
è lanciata in alcuni spaventevoli progetti che vi anticipiamo.
BIG STROKE, ovvero “La gran botta”. La storia inizia
all’osservatorio di Cerveteri, dove l’addetto al telescopio nota
movimenti sospetti nello spazio. Sullo schermo radar appare una serie
di dati indecifrabili. Si scopre che per errore si è infilata
nel computer una bolletta Telecom. Ma un istante dopo ecco l’orribile
verità: un enorme asteroide si sta dirigendo verso la terra.
L’Aeronautica, secondo la direttiva Ustica, cancella subito le
registrazioni radar e avverte Prodi che un ammasso informe si sta
avvicinando al nostro paese. Prodi sgrida il telefonista dicendo che
non si parla così della Costituente. In Parlamento Ulivo e Polo
si accordano, nel superiore interesse del paese, per provvedimenti
urgenti. Mancano sessanta secondi all’impatto.
Ma l’Ulivo, prima di decidere deve fare una verifica interna, un voto
di fiducia e un vertice di maggioranza, il Polo subordina il suo
sì alle dimissioni di Prodi e a un miliardo in contanti da
lasciare in un cespuglio del giardino di Arcore. Mancano dieci secondi.
Bertinotti rassicura che anche se non ci sarà più
l’Italia, non ci sarà crisi, Scalfaro parla di oscure trame
spaziali e si dice sicuro che c’è qualcuno dietro la forza di
gravità. Cossiga vuole le scuse di Copernico. L’asteroide
impatta egregiamente in un punto deserto a eccezione di quattro
fastidiose scuole, e fa un buco di trenta chilometri di diametro.
Sollievo di tutti. Ma dal buco escono un migliaio di alieni verdi con
sciarpe e bandiere. Sono i terribili hooligan di Plutone, “Siamo
venuti perché ci hanno detto che qui c’è il gioco
più duro del sistema solare: calcioni, sceneggiate, insulti,
melina, tattiche, accuse all’arbitro, espulsioni, sgambetti, ribaltoni.
Ma quali mondiali? Stiamo parlando della vostra politica”.
PORKZILLA. Un convoglio di camion Fiat-Oto Melara sta portando un
carico di sistemi elettronici e cannoni per esportarli nei paesi del
Terzo mondo, al fine di creare le condizioni umanitarie per un grande
concerto di beneficienza. Un camion esce di strada e sfonda una
porcilaia. Dai fumi dell’esplosione nasce Porkzilla, un maiale alto
quaranta metri che incomincia a seminare setole e distruzione. Vengono
allertate squadre speciali di incursori e di insaccatori.
Intanto Porkzilla, come ogni mostro che si rispetti, vuole
arrampicarsi su un grattacielo con una bionda nella zampa. Ma tutto
quello che ottiene è di salire su un condominio di sei piani
dove gli aprono le orecchie e lo usano come parabolica. Accerchiato
dai NAS, nuclei antisuino, viene catturato e affidato a Napolitano,
che lo fa chiudere in un hangar, in attesa che il governo decida se
usarlo come salvadanaio erariale o rottamarlo in wurstel. Porkzilla,
naturalmente scappa. Napolitano ammette che la colpa è sua e si
dimette per ventisei secondi. Ma Prodi lo convince a restare,
spiegandogli che il posto di un ministro dell’Interno che si è
fatto scappare Gelli è esattamente in un film di fantascienza.
TITANIC DUE LA VENDETTA. Il transatlantico dei Vip, sta solcando
l’Adriatico. È così lussuoso che, in caso di
affondamento, non verrà abbandonato dai topi ma dai visoni.
Sul ponte di prua Popcorn Veltroni premia Cecchiburger Gori per aver
riportato il cinema italiano a una produzione di regime anzi di dieta:
via i troppi di film dalle sale, solo pochi titoli sani e digeribili.
Cecchi Gori ringrazia in gaelico-ciociaro. Nel salone delle feste i
Vip beccheggiano e aspettano lo show musicale. Ramazzotti arriva in
gondola sposandosi per la quarta volta, Baglioni lo supera con una
spettacolare entrata su un autobus anfibio, Vasco Rossi piomba dal
cielo in elicottero. Ma Reitano frega tutti facendosi lanciare da una
motosilurante, sfonda un oblò e il palco dell’orchestra
è suo. Le danze sono appena iniziate, quando si sente un rumore
sospetto. Tutti guardano Funari, invece è un ghiacciolo
all’amarena che è caduto in mare dalle mani innocenti di un
bambino. Purtroppo la nave è attrezzata per i ricevimenti
mondani ma non per gli speronamenti, e dopo aver urtato il ghiacciolo
inizia ad affondare lentamente.
Il capitano D’Alema urla “Prima le donne, i bambini e le
riforme”, ma le scialuppe sono tutte occupate dalle troupes
televisive che devono filmare il disastro. Diecimila teen-ager partono
dalla riva a nuoto perché si è sparsa la notizia che in
mezzo al mare c’è un grande divo che galleggia. Sperano che si
tratti di Leonardo Di Caprio in carne e ossa, invece è Topo
Gigio in gommapiuma. Un gommone di albanesi salva settecentonovanta
passeggeri al grido di “salite che c’è un sacco di
posto”. Gli altri tornano a casa camminando sulle alghe. La nave
affonda. Su una lastra di ghiaccio, Cacciari spiega a Di Pietro che
questa è la fine naturale dell’immunitas spettacolare contro
la communitas del dolore e della finitudine reale. Di Pietro dorme,
le balene ascoltano interessate, nella loro infinita saggezza.

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