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Le tavole scritte di Paz

«Paz e la carpa Nan Ch’ai» è il titolo del racconto di
Stefano Benni, pubblicato per la prima volta sulla rivista «Il Grifo»,
che fa parte del libro «Paz»,
a cura di Vincenzo Mollica, da domani in libreria nella collana «Stile Libero» di
Einaudi.




Il torrente Resina fila giù dritto e baldanzoso consumando una immensa
roccia preistorica che sta dentro un bosco sulle montagne dell’Umbria.
In quei tempi era uno dei meno inquinati del paese, e infatti vi si
potevano incontrare esemplari di gambero fluviale, di granchio fiumarolo
e di Andrea Pazienza, tutti animali che, come sapete, vivono solo in
acque pulite.

Risalivamo controcorrente, io e Paz, verso due grandi cascate (quasi
due metri di altezza!) che formavano le pozze dove si favoleggiava
vivesse la carpa Nan Ch’ai. La nostra dotazione era:



Lo scrivente:

Un coltello svizzero a sette lame.

Stivali da pesca.

La guida Vademecum per le acque interne dell’Umbria, V dipartimento,
assessorato cultura e tempo libero
, contenente le norme generali e
transitorie su periodi, misure e attrezzi consentiti per la cattura
della carpa Nan Ch’ai.

Un carpometro (righello misuracarpa) da zero a 45 cm.

Una rete del tipo «bilancino» o a «stecca d’ombrello» di metri due per
due (attrezzo non consentito).

Una scatola di granturco da pastura «rapid fish».

Una modica quantità.

Una borraccia d’acqua frizzante.



Paz:

Un coltello sardo pattadese scannabuoi.

Stivali da motocross.

Una macchina fotografica bulgara non funzionante.

Uno shuriken (attrezzo vietato).

Un guadino (retina da pesca con lungo manico), attrezzo consentito, ma
bucato in tre punti.

Un panino del tipo «ciabatta» con mortadella.

Wafer Loacker.

Una modica quantità.

Una lattina di Coca-Cola.

Un tubetto di unghento contro le scottature (si era bruciato una gamba
col tubo di scappamento della moto, previo volo giù da un tornante).



Paz (procedendo a grandi balzi di sasso in sasso, davanti allo
scrivente): – La carpa Nan Ch’ai è la preda più ambita che un pescatore
possa desiderare. Gli antichi testi sacri parlano chiaro…



Lo scrivente (arrancando dietro, con la rete che gli si impiglia nei
rami degli alberi): – Ma sei sicuro che si trovi nel Resina?



Paz: – Gli antichi testi dicono: là dove il torrente si placa un
attimo, tra la porta del pavone di Bhuodang e il bivio per Santa
Cristina, dove non è né Nord né Sud, dove gli uomini aspirano ancora a
essere liberi e dove c’è un incredibile numero di ranocchie…

Era sempre più caldo, e la risalita del fiume sempre più difficile. Le
zanzare ci attaccavano. I climi più caldi allevano le zanne più feroci
(Melville). Con quel caldo neanche un’anima (Flaubert). Il torrente
erano tante cabine telefoniche una vicina all’altra (Brautigan). Siamo
soli e siamo morti (Miller).



Sosta: Paz, sdraiato su una roccia di forma divanica, mangia il panino
alla mortadella e con un bacchettino affresca il fango. E dice:



– I colori che ci sono qui (acqua-alberi-sole-riflessi) sono
difficilissimi da rendere perché sono pieni di luce, fatti di luce, come
il bosco di Rashomon, ricordi?

Ma io sono capace di rifarli uguali sulla pagina; io e chi altri al
mondo?



Lo scrivente: – Nessuno, maestro.



Paz: – E la carpa Nan Ch’ai è di un colore, anzi di colori così rari e
meravigliosi che il pittore cinsese Wu Lien, vedutala, la disegnò, ma ne
rimase così sconvolto che pochi giorni dopo morì…



Scrivente: – E se ci succedesse lo stesso?



Paz: – Impossibile. Abbiamo un vantaggio su Wu Lien.



Scrivente: – E cioè?



Paz: – Occhiali ray-ban.



Detto ciò, Paz indossò gli occhiali scuri e con quattro zampate
vigorose riprese il cammino, alzando spruzzi d’acqua, mettendo in fuga
raganelle e idrometre, agile e sicuro benché infastidito da una gang di
vespe interessatissima al suo odore di balsamo antiscottatura.

E mentre la luce diventava dorata e malinconica, giungemmo alla
cascata, quella detta del Povero Cavallo, perché una volta un cavallo,
traversandola, si era fottuto un posteriore (fatto di cui ancora porta
segno).

– Non qui, – dissi io, – alla seconda pozza, quella dei Granchi
Batteristi.

Qua una volta avevamo incontrato due granchi che, ci crediate o no,
battevano le chele in tempo perfetto accompagnando la nostra radiolina
che suonava Satisfaction.

– Ci siamo, – disse Paz soffiando una modica boccata, – adesso è tutto
molto semplice. Io la spingo col mio retino verso la tua rete e tu la
prendi.

– No, – dissi io, – io con la mia rete la spingo verso il tuo retino e
tu la prendi.

– Facciamo così, – disse Paz, – stiamo sdraiati qui all’ombra finché
quella fetente non viene fuori.

Così fu.

La pozza era verde, immobile e misteriosa.

Paz parlava del Beato Angelico, e di come si potevano saltare otto
sedie con un balzo solo, bastava crederci e respirare bene. Io gli
raccontai la storia del maestro Shaolin Weng Shin e dei dodici discepoli
codardi. All’improvviso, udimmo uno strano rumore. Una vibrazione, come
un piccolo battito d’ali sotto l’acqua.

Velocissimo Paz estrasse un bloc notes e una scatola di pastelli.

– Se esce, la disegno, – disse sottovoce.

– Sta’ attento, – dissi io, – può essere pericoloso.

In quel momento, la carpa saltò.

Come ben sapete, la carpa Nan Ch’ai è di una bellezza superiore alle
parole. Perciò posso solo ripetere: saltò.

Tornammo in silenzio. Cominciava a fare un po’ fresco.

– L’hai disegnata? – chiesi.

– Forse, – disse Paz.

– Attento. Chi la disegna anche una volta sola…

E vedemmo le prime luci di Alcatraz: là ci attendevano amici sinceri,
abiti asciutti e ceci bollenti.



Due anni dopo il torrente Resina restò secco per una terribile stagione
di siccità. Rifeci lo stesso cammino che avevo fatto con Paz. Un filo
d’acqua fangosa era tutto ciò che restava del fiume. La pozza dei
Granchi Batteristi era una pozzanghera sporca, e le poche carpe erano
nascoste sotto i sassi. Tutto era arido, screpolato. Un fiume. Un grande
magico fiume. Con la sua acqua pulita, le sue rare creature, i terrori,
le invenzioni, la poesia, le sorprese di ombra e di luce. Ecco cosa non
c’era più.

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