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Il bar della stazione

Il bar della stazione della città di B. ronzava di gente. Erano i giorni
di punta dell’esodo vacanziero. Truppe valigiate e zainate riempivano e
svuotavano treni, attendevano stremate dal caldo, si accampavano nelle
combinazioni più teatrali, dal presepe al bivacco militare. E soprattutto
si accalcavano alle casse del bar, inseguendo glaciali lattine e rugiadose
bottiglie che, una volta conquistate, reggevano alte sulla testa come ostensori,
o cullavano maternamente tra le braccia. Soldati in divisa guatavano nordiche
rosee, chitarre di alternativi sfioravano teleobiettivi di samurai, mamme
monumentali controllavano diserzioni di prole, babbi carichi come somari
tentavano, con l’ultimo dito libero, di tenere al guinzaglio un botolo
scatenato dagli afrori. Pazienti ferrovieri fornivano indicazioni a suor-sergentesse
di brigate rosariate mentre branchi di giovanetti si spostavano
compatti, e le sponsorizzazioni delle magliette si confondevano con quelle degli
zaini, tanto da farli sembrare un enorme polipoide pronto a scivolare dentro al
treno da un unico finestrino.
Quattro africani, ognuno con boutique al seguito, cercavano di piazzare
mercanzia con alterna fortuna, un quinto riposava sdraiato tra collane, giraffe
e occhiali neri, come il sultano di una reggia in liquidazione.
Due vecchie vestite di nero, in transito dalle isole, tagliavano fette di
provola per una nidiata di marmocchi in mutande. Un uomo obeso, sudato, beveva
birra a collo e mostrava coraggiosamente al mondo due cosciotti da tirannosauro
sboccianti da shorts fucsia con la scritta “SportLine”. Un barbone
camminava reggendo nella mano destra una busta con la casa e nella sinistra il
guardaroba.
Un’antilope bionda, bellissima, ambrata, avanzò tra i tavoli
accendendo i sogni di tutti i militari presenti, ma ahimè, poco dopo la
affiancò un Thor in canottiera traforata a riccioli biondi che
educatamente si mise in fila troneggiando sopra brevilinei calabresi e sbarbine
romagnole già rombanti in pole position per la discoteca.
Si attendeva il 9,06 in ritardo, il 9,42 speciale, il 10,00 seconda classe
settori B e C. Tutti erano partenzapér o arrivodà.
Solo due clienti del bar sembravano indifferenti alla
generale eccitazione, come separati dalla folla da un velo invisibile.
Uno
era un vecchio occhiceruleo, con un vetusto completo kaki, bastoncino di canna e
sandali con calzini di lana. L’altro un uomo tozzo coi capelli corti,
occhiali a specchio, e un completo blu di una certa eleganza. Erano seduti
vicino all’entrata del bar. Il vecchio, che chiameremo il Parlante,
sorseggiava una birra. L’uomo con gli occhiali neri, che chiameremo il
Silenzioso, beveva svogliatamente un caffè freddo.
Chiaramente il
Parlante aveva voglia di attaccare discorso e il Silenzioso no: ma in queste
situazioni un Parlante è sempre in nettissimo vantaggio. Basta che parli.
E così fu.
— Certo, ce n’è di gente oggi
— esordì.
— Abbastanza — grugnì il
Silenzioso.
— A me non dispiace, — proseguì il
Parlante, per niente scoraggiato dal preventivato mugugno — voglio dire,
una stazione strapiena può dare a i nervi, ma una stazione vuota è
triste. E poi, non so come spiegarle, questa gente che parte per le vacanze mi
sembra più allegra, frenetica, ma piena di buonumore, non trova?
— Se lo dice lei — rispose il Silenzioso dietro la cortina
degli occhiali.
— Io non parto — disse il Parlante, ormai lanciato.
— Quest’estate resto in città, mia moglie ha dei
problemi al cuore, e i medici ci hanno sconsigliato di muoverci, allora mi piace
venire qua perché nel mio quartiere c’è un gran mortorio,
sembra tornato il coprifuoco. Qua ci sono tante facce, dei bei giovani, delle
belle giovanotte abbronzate. E la gente sembra migliore, ride di più, si
chiama a alta voce, scherza. Forse perché stanno partendo, e sperano di
trovare qualcosa di buono là dove vanno. Si parte per questo, no?
— C’è anche qualcuno che sta già tornando —
disse il Silenzioso.
— Sì, ritornano e allora osservo quelle belle scene che mi
piacciono tanto, uno scende dal vagone e guarda in fondo al binario, affretta il
passo e poi riconosce la persona che lo aspetta, e le corre incontro. Si vedono
degli abbracci che non si vedono tutti i giorni. E certi baci appassionati!
E’ un momento che ci si vuole bene, magari un’ora dopo si litiga ed
è già tornato tutto normale. E si hanno tante cose da raccontare;
magari in vacanza non ti è successo granché, ma raccontandolo
tutto si colora, si trasfigura. Anche senza volere, la vacanza diventa
più bella di come è stata: le cose brutte diventano quasi comiche,
le cose belle diventano uniche. Non trova?
— Non lo so. Non racconto mai quello che mi succede in viaggio…
— Ce n’è anche di quelli come lei, che si tengono tutto
dentro, come un bel segreto, da coltivare durante l’inverno, come una
pianta che si compra in vacanza e si mette sul balcone. E magari tornando si
accorgono che gli mancava la loro vecchia città, che sentivano un
po’ di nostalgia. Il loro quartiere sembra meno noioso del solito. Fanno
progetti, si dicono: «no, questo inverno non andrà come quello
scorso». Magari questi progetti si spengono in fretta, ma che importa? E
quelli che partono? Si stancano più a organizzare la partenza che a
lavorare una settimana, ma sembrano contenti. Perché sperano che
là, nel posto dove arriveranno, ci sarà qualcosa di nuovo, che
cambierà il loro destino. O magari gli basta qualche foto da guardare
nelle sere d’inverno. Che ne pensa?

— Penso, — disse il Silenzioso con un sorriso sarcastico
— che lei dovrebbe andarci piano con quella birra.

— Parla come mia moglie, — sospirò il vecchio — ma
vede, dal momento che non parto, non mi va di stare chiuso in casa a mugugnare
da solo, o guardare alla televisione gli ingorghi sulle autostrade, o invidiare
quelli che sono partiti. Vengo qui e faccio anch’io parte della festa,
immagino dei posti al mare o in montagna, o in un’altra città, dove
ci potrebbe essere qualcosa di speciale per me. Ecco, guardi quella ragazza:
c’ha scritto sulla schiena “Ocean Beach”. Se la guardo,
già sento aria di mare, e vedo le palme.

— Guardi che “Ocean Beach” è la marca dello zaino.
E non sente che qua dentro manca l’aria per la ressa?
— Ha ragione — disse il Parlante. — Sì, anche
a me spesso la folla dà fastidio. Divento nervoso nelle file, soffoco
quando sono circondato dal traffico, mi vien da dar di matto, vorrei roteare il
bastone e gridare via, via, lasciatemi un po’ di spazio, due metri, tre
metri almeno. E poi ci sono i rumori che ti svegliano la notte, i motorini, le
facce ostili alla finestra, il nervosismo di quelli che credono di essere gli
unici a patire il caldo. Sì, qualche volta mi arrabbio, ma poi mi chiedo:
vivere insieme in fondo non è questo? Difendere il proprio diritto ad
avere un po’ di spazio, aria, silenzio, rispetto, speranza, ma senza aver
paura di ciò che ci circonda, non vedere nemici dappertutto, invasori,
gente che ti passa davanti. Lei, se per strada qualcuno la urta, cosa pensa? Che
l’ha fatto apposta?
— Ma che razza di domande, — si spazientì il Silenzioso
— e poi di che rispetto parla, non vede quanti barboni, quante persone
inutili, miserabili, disperate, ci sono qua dentro?
— Forse ha ragione. Ma non li guardi nel momento in cui sono feriti,
chini a terra, vinti. Li guardi nel momento che si tirano su, che sono allegri,
che cercano di respirare. Guardi quel nero: carico come una bestia, va a vendere
chissà cosa in chissà quale spiaggia, e canta. E guardi come si
gode la sigaretta quella vecchiaccia. E quella coppia di ragazzi, beh, non sono
proprio dei modelli di eleganza, ma vede come sono abbarbicati insieme a
dormire, lì per terra…
— Sì, capisco cosa pensa — proseguì il vecchio.
— Che lei è diverso, che non è affar suo occuparsene.
Eppure sono sicuro che anche lei, almeno un giorno della sua vita, era ridotto
da far pena. Ma negli ultimi tempi, in questo paese, si fa più in fretta
a buttare via la gente. Si è accorciata la data di scadenza come lo
yogurt. Vecchio, alé, scaduto. Drogato, alé, non dura un mese.
Disoccupato, alé, tanto finisce male. Per carità non vorrei
buttarla in politica. Ma di questo passo facciamo cittadini solo quelli che
tengono il ritmo del gruppo, non so se lei si intende di ciclismo, o anche
peggio, quelli che marciano tutti al passo, o quelli che c’hanno i soldi
da farsi portare in spalla.
— Calma, calma, — disse il Silenzioso — altroché
politica, lei mi sta facendo un comizio!
— Ha ragione, sono un chiacchierone. Ma ogni giorno vedo la gente
diventare cattiva per niente, odiare quella che non conosce, ripetere i
tormentoni della televisione invece di dire quello che c’ha dentro. Allora
mi arrabbio. E a me, glielo dico subito, se la borsa sale o scende non me ne
frega niente. Io vedo se sale o scende l’avidità e la cattiveria. E
sa cosa le dico? Ma che miseria, che crisi! Noi siamo un paese che potrebbe
esportarla l’allegria, come le arance, aiutare gli altri paesi, potremmo
essere gente che regala la speranza, invece di aver paura di tutto e montare le
fotoelettriche intorno alla casa.

— Ma che discorsi sconnessi. Ci vorrà pure un po’ di
ordine — sbuffò il Silenzioso.
— Ha ragione ha ragione, sto esagerando. Volevo solo spiegarle
perché passo il mio tempo qui. Perché penso che bisognerebbe
sempre sentirsi come se si partisse il giorno dopo, o come se si fosse appena
tornati. Tutto diventa più prezioso; quello che si lascia e quello che si
trova. Il dolore è facile da ascoltare, quello ti arriva addosso, urla,
ha una voce terribile, è sempre lui a raggiungerti. La speranza è
un vocina sottile, bisogna andarla a cercare da dove viene, guardar sotto il
letto per poterla ascoltare. O venire in una stazione.
— I suoi sono discorsi da pomeriggio estivo, — disse il
Silenzioso consultando l’orologio, — ma mandare avanti un paese
è molto più difficile.
— Ne convengo — disse il vecchio sorridendo. — Mi
scusi se le ho attaccato un bottone, vedo che lei sta partendo. Beh, spero che
vada in un bel posto e che passi una bella vacanza.
— Grazie — disse l’uomo e si allontanò, fendendo
deciso la calca.
— E’ difficile parlare con un uomo che ha gli occhiali neri,
— pensò il vecchio — non si vede mai cosa pensa davvero.
Forse l’ho annoiato. O forse il mio discorso lo ha toccato. Sembra che a
certuni parlar di speranza metta paura. Eppure a me questa gente che parte e
torna mette allegria. Sì, saranno avidi, nervosi, pigri, disordinati,
cialtroni, si spingono e si rubano il posto ma hanno diritto di provarci
un’altra volta, hanno diritto di cercarsi un posto migliore, o di tornare
a casa e ricominciare. Sì, ricominciare almeno una volta prima di
rassegnarsi. Non è molto, ma è qualcosa.
Una famiglia gli passò davanti di corsa, il treno stava arrivando. Un
bambino correva goffo, trascinando un triciclo rumoroso. Una bimba teneva la
mano sul cappello di paglia per non perderlo. Il padre aveva un gilè da
pescatore a trenta tasche e naturalmente non trovava più il biglietto. La
madre lo perquisiva rimproverandolo. Il barbone, guardando la scena; rise. Il
nero addormentato si svegliò sbadigliando come un leone.
Il vecchio aveva finito la birra, si asciugò la fronte e uscì, un
po’ barcollante, sulla pensilina del primo binario. Venendo
dall’aria condizionata del bar, fu come tuffarsi nel brodo. Vide il
Silenzioso che si avviava verso l’uscita. Gli sembrò che non avesse
più la valigia, ma non ci fece troppo caso. Era troppo incantato a
guardare la gente. Gli sembrava di aver scoperto qualcosa, qualcosa di
importante che gli sarebbe servito per quello che gli restava da vivere.
«Se avessi con me un quaderno ce lo scriverei sopra»
pensò.
«Oggi, stazione di Bologna, due agosto di un anno vicino al duemila, ore
dieci e venti del mattino, tutti sono allegri perché partono, e faccio
finta di partire anch’io».

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